di Barbara Melgiovanni
LECCE | E se Chet Baker fosse ancora vivo? Se la sua morte non fosse mai avvenuta? Roberto Cotroneo, filosofo, scrittore e critico letterario, immagina nel suo ultimo lavoro una seconda vita del leggendario trombettista jazz, come se quel 13 maggio 1988, giorno della morte del musicista, non fosse stato l’ultimo della sua vita. Così, quasi vent’anni dopo, nel 2006, Cotroneo immagina il protagonista all’interno di una realtà quasi fosse ancora vivo e che come un eremita si aggira tutto solo nel Salento in cerca di silenzio e pace.
Nella sala conferenze del Museo Sigismondo Castromediano, Anna Palmieri, proprietaria della Libreria Palmieri di Lecce, lo ha incontrato, per presentare il suo ultimo romanzo, edito da Mondadori, «E nemmeno un rimpianto». A presentare l’incontro il filosofo Giovanni Invitto, preside della facoltà di Scienze della formazione dell'Università del Salento e Tonino Cassiano, direttore del Museo Castromediano.
DA AMSTERDAM A GIURDIGNANO | Invitto ci svela, in realtà, che l’autore nel libro non fa altro che parlare di se stesso in maniera indiretta, e che i motivi che l’hanno portato a scrivere questo romanzo sono senza dubbio il suo grande amore per la musica e il voler mettere in luce il suo rapporto con la morte apparente, presunta, che nasconde di fondo non una morte reale, ma sopravvivenza in un altrove. Baker riappare infatti a Giurdignano, ha solo fatto credere di essersi gettato da quel balcone ad Amsterdam.
Una lettura del romanzo ce la suggerisce Cassiano. Cotroneo in realtà entra nelle viscere di Baker, di «quel trombettista bianco nel mondo del jazz dominato invece dai neri». E fa in modo che alla torre del Serpe, dove nessuno lo può ascoltare, possa risuonare la tromba. Quando poi prende la parola Cotroneo, che intanto, attentamente e in silenzio, ha ascoltato le parole spese per lui, è un po’ a disagio: «Non amo fare le presentazioni – esordisce - «odio l’autorialità, gli autori dovrebbero far parlare i libri».
UNA TELEFONATA RIVELATRICE | Gli chiediamo allora la genesi di questo suo romanzo e lui ci confida che è difficile raccontare il jazz, la musica, una delle arti in assoluto più misteriose, perché non spiegabile attraverso il nostro limitato linguaggio umano. «Le parole sono pochezza rispetto alla vertigine di uno spartito». Questo romanzo è in realtà l'ascolto di un vecchio vinile dai solchi consumati, vissuto, ma in grado, a ogni giro di puntina, di riportare in vita la voce e la tromba del genio maledetto di Chet Baker. Il ricordo, la sua musica, porta con sé la potenza di un miracolo: è in grado di risuscitarlo quasi vent'anni dopo, ed esattamente una mattina del 2006, quando il protagonista del romanzo riceve una telefonata che sostiene come Chet non sia morto, ma viva nel cuore del Salento.
«NON HO MAI AMATO BAKER» | A questo punto gli chiediamo perché proprio Chet Baker. Ci saremmo aspettati di sentirci rispondere che fosse il suo idolo, invece l’autore ci sorprende: «In verità, non ho mai amato Chet Baker. È stato sempre molto lontano rispetto a quello di cui io musicalmente mi occupavo. Incideva dischi su dischi, voleva pochi soldi e subito. S’iniettava di eroina pura, tanto che stupisce come possa essere sopravvissuto senza morirne prima. Eppure aveva un’anima straordinaria. Un’anima che non si vedeva però. Questo m’incuriosiva, come poteva essere possibile? Posava la tromba e diventava completamente un altro uomo».
Cotroneo sembra non capacitarsene. Decide quindi di farlo rivivere in questa casa di legno tra Otranto e Giurdignano e di «redimerlo»: grazie ad una donna che vive a Parigi lui ha, infatti, cambiato vita. Diventa una sorta di mistico e smette di suonare.
«Questo romanzo è il punto di partenza, il primo volume di una trilogia. Qui studio il rapporto con la musica, nel prossimo mi occuperò del rapporto con l’immagine e con la fotografia, il terzo sarà su Roma e su quel genio di Fellini».
«IL SALENTO VA DI MODA. MI SONO DISTACCATO» | Su suggerimento della lettura del libro che ne fa Invitto gli chiediamo allora cosa ci sia di Cotroneo in Baker: «Ho saldato dei conti – racconta – Tutte le parti descrittive sono vere, sono io che non riuscivo a suonare My funny Valentine. Sono io ad avere un rapporto complicato con il Salento, sono infatti un apolide. Sono cresciuto al Nord, ad Alessandria, ma non mi sono mai sentito piemontese perché i miei genitori erano calabresi. Mi sono scelto un mio Sud, la Calabria era troppo dura, aspra, e il mio Sud di elezione è diventato il Salento, proprio perché molto diverso dall’asprezza calabra. Poi ho sposato una tarantina che aveva i genitori a Lecce. Lecce l’ho vissuta, e poi tutto questo si è trasformato in qualcosa di letterario. Ma all’epoca, alla fine degli anni Ottanta, a Lecce non c’erano i turisti, la pizzica, ora il Salento va di moda, quindi me ne sono distaccato». Ma si sa, il primo amore non si scorda mai. E alla fine la sua promessa: «Se anche smettessi di fare presentazioni, a Lecce ci verrei sempre».
Sabato 29 ottobre 2011
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